Centri Commerciali, i rimedi alla recessione

15 Mag 2016


“European Shopping Centre Development Report”, lo studio di Cushman&Wakefield (uno dei principali soggetti internazionali del real estate per shopping center) sull’andamento dei centri commerciali in Europa, prevede per l’Europa del prossimo biennio una crescita di 9,1 milioni di metri quadrati delle superfici occupate da immobili commerciali, lasciandosi alle spalle un anno molto contraddittorio. Il 2015, infatti, da una parte ha registrato i volumi più bassi degli ultimi dieci anni (4,6 milioni di mq, circa il 16% in meno rispetto al 2014), dall’altra nella sua seconda metà ha visto ripartire gli investimenti europei con ben 15,5 miliardi di euro, corrispondenti a una crescita anno su anno del 16,6%. Notevole, inoltre, lo stock di nuove aperture nel secondo semestre 2015 (1,2 milioni di mq), quattro volte tanto il primo semestre del 2014.

Il 14 aprile scorso è stato inaugurato “Il Centro” di Arese, il più grande centro commerciale italiano e uno dei primi in Europa: il sabato successivo all’apertura la polizia stradale è dovuta intervenire bloccando l’uscita Lainate-Arese, sul quale incombeva una coda di 10 Km; dopo i primi quattro giorni avevano visitato Il Centro già 350.000 persone (a fronte di un obiettivo originario di 15 milioni di clienti all’anno).

A leggere queste prime righe, la conclusione sembra a portata di mano: per i nostri centri commerciali il tempo volge decisamente al sereno. Ma così, in realtà, non è, e lo sviluppo di alcune aree (quella eurorientale e turca, soprattutto) contrasta con dati sull’andamento internazionale di tutt’altro segno. In casa nostra, secondo l’Osservatorio sulle polarità commerciali di Trade Lab presentato il 5 maggio scorso a Milano in occasione del convegno “Dove Va Lo Shopping?”, gli indicatori di frequentazione e acquisti dei centri commerciali sono in calo, rispettivamente del 6,9% e del 3,9% a favore di internet (che cresce de 5,2% in frequentazione e addirittura del 24,6% negli acquisti) e anche del commercio urbano, che aumenta del 3% alla voce acquisti, ma perde il 7% quanto a frequentazione.

Una partita, tanti giocatori

Numeri che “fanno scopa” con un indicatore molto chiaro: se nel 2005 in Italia sono stati aperti 57 centri commerciali, nel 2014 sono stati 5, per un totale di circa 900 attivi a oggi. A voler guardare soltanto nel giardino (si fa per dire) di casa nostra le ragioni della flessione sono tante, a cominciare dalla densità di questo forma di retail. Dopo anni di crescita ininterrotta, il rapporto 2015 dell’ISPRA (L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) sul consumo di suolo (la trasformazione di superfici naturali o agricole, tramite costruzioni o infrastrutture, impossibili da ripristinare allo stato preesistente) in italia ha evidenziato che nel nostro paese si è passati da un consumo pari a 2,7% degli anni cinquanta al 7,8% del 2014, con 21.000 kmq di territorio snaturato. La percentuale europea media di consumo di suolo è 4,6%.

L’impatto ambientale è uno dei fattori determinanti della partita tra retailer e amministrazioni locali, e negli ultimi anni si è configurato spesso come un negoziato dove la variante al piano regolatore di turno, necessaria all’insediamento del centro commerciale, viene concessa in cambio di impegni a favore della comunità. A Palermo, per esempio, è stata lunga e aspra la querelle tra Maurizio Zamparini e il comune per la realizzazione del centro commerciale Conca d’Oro, che verteva sulla concessione al Comune di due palazzine costruite nell’area per ospitare uffici a basso canone d’affitto, ludoteche e spazi didattici per i giovani.

Ma proprio il caso di Arese è esemplificativo dell’opposizione sempre più forte che viene opposta a nuove iniziative su questo format. “Il Centro” è stato progettato nel 2008 quando la crisi globale era all’inizio e pochi ne prevedevano durata e profondità. Con la stagnazione dei consumi che perdura da anni, questo mall – che ha ricevuto il permesso di costruire nel 2013, a 13 anni dalla prima richiesta – sarebbe stato approvato?

Nelle polemiche tutt’altro che sopite seguite all’apertura del mall, sono in molti a lamentare l’effetto sui centri commerciali vicini, l’ulteriore colpo al commercio al dettaglio tradizionale, lo sforzo che dovrà essere compiuto per evitare la desertificazione dei centri storici, i pesanti interrogativi sul saldo reale tra posti di lavoro creati e cancellati. La Regione Lombardia stessa, peraltro presente con il suo presidente alla giornata inaugurale, già da due anni ha regolamentato in maniera molto più stretta la concessione di spazi a nuovi centri commerciali. Intanto, però, sono in piano altri due importanti insediamenti commerciali nell’area milanese. Per uno di questi, il nuovo centro concesso a Segrate al gruppo australiano Westfield e a Galeries Lafayette senza la realizzazione della viabilità̀ speciale di connessione alla rete stradale le banche non concederanno i finanziamenti per costruire il centro commerciale.

Il concetto è chiaro, e vale per tutti: numeri alla mano, è ormai innegabile che ai benefici di alcuni corrispondono negatività per molti, e le resistenze si fanno sempre più forti. A Bolzano, per esempio, il centro commerciale progettato dall’imprenditore austriaco René Benko nel centro della città ha diviso aspramente l’opinione pubblica, provocando la caduta della giunta comunale, e per essere approvato è stato necessario addirittura un referendum indetto dal commissario prefettizio dopo le dimissioni del sindaco Luigi Spagnolli.

 Il declino di un modello?

La situazione degli Stati Uniti, dove il mall è diventato simbolo di un’epoca di prosperità, non lascia ben sperare. C’è una data precisa che segna l’inversione di tendenza: nel 2007, all’inizio della Grande Recessione, per la prima volta dopo cinquant’anni non è stato aperto neppure un centro commerciale. Nell’ultimo decennio almeno 30 mall hanno chiuso, e le previsioni dei più assegnano stessa sorte ad almeno altri 60 nel prossimo futuro. Il processo si è fatto inarrestabile fino a divenire un ambito di studio a sé: è rappresentato da una voce specifica su Wikipedia: ‘Dead Mall’, e da un sito quasi omonimo che racconta alcune di queste storie in ogni stato dell’Unione. E per chi volesse approfondire basta una semplice chiave di ricerca video su “dead mall series”.

Tra le vittime illustri della situazione, pur se in modo molto più decoroso, ha fatto scalpore Arcade Providence, il più antico centro commerciale d’America: fu costruito nel 1828 e venne inserito nel Registro Nazionale dei luoghi storici nel 1971 per la bellezza neoclassica che lo ha sempre contraddistinto. A 180 anni dalla fondazione rischiò l’abbandono ed il degrado come molti altre strutture fino a quando fu rilevato essere trasformato in un complesso residenziale di alto livello. Una banale ricerca sulla rete con parola chiave “dead malls” non lascia invece spazio ad immaginazioni di sorta. Un fotografo di Cleveland, Seph Lawless, ha acquisito fama internazionale con il suo libro ” Black Friday: The Collapse of the American Shopping Mall”, e l’impatto visivo del suo sito è eloquente.

Questo avviene, è bene dirlo, in una nazione di nuovo in crescita e con i consumi in ripresa, anche se certo non si può rimuovere in poco tempo il terribile impatto economico e sociale subito da una larga parte dei consumatori nell’ultimo, triste periodo della storia americana. Tutta colpa della crisi e dell’e-commerce? No, queste due premesse sono certo fondamentali, ma le ragioni sono anche altre, e sono spesso riconducibili a tre voci: l’esubero d’offerta, il ritardo nel cogliere i cambiamenti e la conseguente mancata innovazione.

Proprio un anno fa, un articolo di Fabio Tonacci su “La Repubblica” riguardo alla zona di Mestre (il Veneto è la regione italiana con la più alta densità di centri commerciali) tracciò una sintesi efficace parlando della “cannibalizzazione” reciproca tra centri commerciali a fronte di un eccesso di offerta in spazi sempre più intasati e di un numero sempre minore di clienti, che nel frattempo premiano sempre di più i discount (un canale della GDO che gode ottima salute) e l’e-commerce.

Un altro futuro

Un centro commerciale abbandonato a Lione, Francia
Un centro commerciale abbandonato a Lione, Francia

Secondo ICSC– l’associazione internazionale dei centri commerciali, che il 18 e 19 aprile ha tenuto a Milano la sua conferenza europea – gli shopping center in Europa nel 2014 hanno generato IVA per 110 miliardi di euro. Hammerson, la più grande società di investimento inglese nel Real estate, sostiene che le attività indipendenti attorno a un suo centro commerciale ha indotto un aumento delle vendite dell’8,7% per i negozi circostanti e del 20% per quelli del centro storico, e non a caso sta procedendo di gran carriera nell’acquisizione di complessi in difficoltà in tutta Europa. Difficile, quindi, intonare un “de profundis” incondizionato di fronte a queste realtà o al successo, almeno per adesso, del nuovo Centro di Arese. Sono molte le zavorre da sganciare, ma si può riguadagnare velocità.

I consumatori e trovano sempre meno motivi per salire in auto e spendere tempo e denaro per raggiungere centri commerciali indistinguibili l’uno dall’altro, dove la fanno da padrone mancanza d’identità, offerta omologata, scarsa convenienza, difformità rispetto ad aspettative e tendenze d’acquisto costruite online. Secondo Ermanno Canali, presidente dell’omonima agenzia di pubblicità e comunicazione, «ciò che deve guidare i centri commerciali è la distintività. Tutti i centri commerciali si assomigliano, ma hanno peculiarità sulle quali il marketing deve ragionare per individuare il target prioritario da attrarre, con quale offerta e con quali elementi differenzianti. Bisogna identificare il prodotto, identificare il linguaggio utile per quali attività di marketing”.

Customer Experience è un’espressione che riacquista significato importante, ne abbiamo parlato più volte: la ristorazione, l’intrattenimento, i servizi al cliente e la caratterizzazione dell’offerta diventano decisivi. E la consapevolezza, inoltre, di dover trattare con un cliente ormai molto diverso da quello che affollava i centri commerciali negli anni ottanta e novanta: il successo del click & collect (nell’ultimo anno in Italia un compratore online su cinque ha ritirato il prodotto in un punto vendita fisico dopo averlo scelto e ordinato via internet), per esempio, dovrebbe dirla molto lunga sulla necessaria integrazione del commercio fisico e digitale.

Anche la gestione degli spazi con l’ibridazione può essere a tendere risposta di grande efficacia. Spostando l’attenzione sui department stores sta facendo scuola la scelta di Sears, retailer americano che ha aperto le proprie location in diverse modalità di collaborazione all’irlandese Primark, a Whole Foods Market, al fast-fashioner Forever 21 e al discount tedesco Aldi (nonostante faccia parte del gruppo un altro marchio noto del discount, Kmart). In molti casi si tratta di un subaffitto, in altri una condivisione di spazio. Scelte molto simili, del resto, a quelle di brand del peso di Macy’s, Best Buy, Walmart, Staple e in Italia della stessa Coop.

E, a premessa, l’individuazione delle giuste aree d’insediamento. Per Massimo Moretti, presidente del Consiglio nazionale dei centri commerciali, «In Europa si recuperano aree dismesse nelle città. È tempo che anche l’Italia si adegui a ciò che viene fatto all’estero per restituire luoghi importanti e bellissimi alle città. Il termine extra urbano deve essere cancellato». Obiettivo prioritario i molti immobili in dismissione della pubblica amministrazione: proprio in collaborazione con il Consiglio l’Agenzia del Demanio ha selezionato 19 ex caserme e aree pubbliche di diverso tipo per trasformarle in centri commerciali.


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